Solo in compagnia di sé senza
chiedere il permesso...
Ebbro di un successo sempre crescente, Claudio affronta, in quell'estate di ampi
successi discografici, due mesi di tournee nell'America Latina, dove visita
principalmente le città di Rio de Janeiro, Buenos Aires, Lima e
Città del
Messico. Rimane molto colpito dal costume e dalla cultura di queste nuove realtà
che ha la possibilità di vedere per la prima volta con i propri occhi; è lui
stesso che declama il suo meravigliato stupore a margine di un'intervista
rilasciata qualche tempo dopo, per un noto settimanale: "Parlare di Rio non è
facile. È stata definita la città più bella del mondo. Una città che sembra
duecento città messe insieme, con duemila problemi e due milioni di
contraddizioni. Città di bellezze naturali, città industriale, città del futuro,
città del caos, città ricca, città dalle mille baracche, città felice, che
piange. Una città che vive a ritmo di samba: un samba lento il giorno, un samba
nervoso e interminabile la notte. Tutto è samba: ci si sveglia, si cammina, si
lavora, ci si incontra, si aspetta, si ama, ci si lascia, si parla "sambando".
La musica è proprietà di tutti. È come il pane, come l'acqua. Che si può dire
della gente di Rio... gente che vive, lavora, balla, cuce costumi, inventa
canzoni un anno intero, aspettando il Carnevale e ognuno sogna, durante quattro
giorni di pazzia, di gioia, di violenza, di essere un re. Come definire questa
gente che canta la propria tristezza, la rabbia, la fatica, la nostalgia (la "saudade"
di tante canzoni) con un sorriso sulle labbra? Fa bene o male? Io non lo so!...
So solo che questa gente esiste e sta qui...".
A Buenos Aires non si lascia sfuggire la possibilità di rincontrare il suo
vecchio insegnante di pianoforte, il maestro Nicolas Amato. Quest'ultimo si
proporrà, tra l'altro, quale prioritario collaboratore nella stesura di molte
delle traduzioni in castellano, da destinare al mercato sudamericano, dei suoi
pezzi precedenti e successivi.
Al ritorno, oltre a essersi fatto conoscere personalmente dal pubblico
sudamericano, ha anche assimilato e recepito le sfumature di quella filosofia di
vita così lontana dalla nostra; immagini, personaggi e consuetudini gli
rimangono dentro e gli serviranno anche, in un futuro abbastanza prossimo e
imminente, per rimpinguare il proprio bagaglio professionale e artistico.
Il 19 luglio (sempre del
'75),
Claudio viene invitato alla trasmissione Senza Rete, all'interno della quale
si esibisce in un vero e proprio piccolo concerto. Tutte le canzoni ivi proposte
denotano arrangiamenti più o meno diversi dalle versioni originali; tali
arrangiamenti sono, per l'occasione, curati dal "maestro" della RAI, Tony De
Vita. Oltre a canzoni passate e recenti della sua produzione classica, è
importante sottolineare l'interpretazione inedita di
Marinetta.
Nel settembre di quello stesso,
operoso anno, canta dal vivo Poster al Festivalbar fra il tripudio di quelli
che sono ormai da considerare come suoi fan esclusivi. Baglioni è ormai,
dichiaratamente, un evento musicale.
Tuttavia, dopo una breve e
sporadica apparizione pubblica a Venezia, in gennaio, per presenziare al
Galà
dell'Unicef, il 1976 trascorre senza che si senta parlare di Claudio Baglioni,
né viene stampato alcun album d'inediti, come il cantautore dal
1972 aveva
abituato a fare con scadenza annuale.
La stampa, i fan, l'opinione pubblica in generale iniziano a interrogarsi su
questa reiterata assenza, mentre la RCA teme che si esaurisca il momento
propizio, che termini cioè quell'ondata di entusiasmo che sommerge il cantautore
a ogni nuovo lavoro; essa si fa sempre più opprimente nei confronti di Baglioni,
consigliandogli di realizzare un qualsivoglia disco, anche puntando su brani
simili a quelli precedenti per addivenire a una pubblicazione immediata: secondo
i discografici, infatti, proprio per le attese consolidate, qualunque prodotto
realizzato avrebbe conseguito un facile successo.
Ma proprio questi angusti confini nei quali si sente costretto, questo obbligo
di eseguire "canzoni su commissione" allontanano maggiormente l'autore dai suoi
discografici e ne determinano l'ennesima crisi professionale e artistica. Come
per le volte precedenti, tuttavia, questo difficile travaglio rende il
successivo parto ancora più fecondo e produttivo: deciso a far valere la propria
autonomia, si ritira in solitudine e, senza la consueta supervisione di Coggio,
Claudio firma le nuove musiche e i testi, si occupa degli arrangiamenti in
accoppiata con Toto Torquati, si supervisiona e si autoproduce. Nasce anche da
questa necessità di autosufficienza il titolo del nuovo LP, che si chiamerà
appunto
Solo e che segna un solco indelebile fra quella prima produzione,
descritta sino a ora, e quella ventura, destinata a differenziarsi da quella
precedente in maniera così profonda.
Solo è innanzitutto un disco di
grandi atmosfere, dove si distingue una passione quasi viscerale per la
solitudine, tema comune denominatore di ogni canzone: se essa è, da una parte,
condizione involontaria dei personaggi protagonisti delle varie storie,
dall'altra è anche l'accompagnatrice per il cui tramite si caratterizzano e
trovano piena espressione di loro: è catarsi necessaria in virtù della quale
essi si riscoprono capaci di alternare alla dimensione reale e insoddisfacente
quella onirica e parallela dell'immaginario. Un disco dalla struttura complessa
che distende interrogativi inquietanti sulla reale portata della vita. La stessa
copertina pare essere molto soffusa, scura e semplicemente didascalica; essa
rivela, in una piccola fotografia discosta, un Baglioni insolitamente
corrucciato e pensieroso, come a dispiegare in un'icona la struttura
interrogativa che permea l'intero lavoro. Come nello schema inaugurato con
Sabato pomeriggio, anche la sceneggiatura di Solo muove personaggi di
svariato tipo, diversi fra loro per estrazione sociale, cultura e impostazione
ideologica qui accomunati dal medesimo senso di solitudine. Rispetto al lavoro
precedente, tuttavia, la posizione del narratore pare essere meno coinvolta
emotivamente nelle vicende dei personaggi e disposta piuttosto all'osservazione
neutrale. Quelle ivi raccontate sono vicende ordinarie che si sviluppano senza
una sensibile mediazione di chi le racconta e per questo più improntate a
soddisfare un certo evidente verismo narrativo.
Sta forse proprio qui il distacco più netto nei confronti di una produzione
precedente, disposta piuttosto a coinvolgere l'autore direttamente. Questa
differenziazione consente ora un maggiore approfondimento di temi "esterni" che
da questo ellepì iniziano a essere trattati in modo probabilmente meno
"sentimentale" ma certamente più maturo e disincantato.
Lo stesso linguaggio denota ora espressioni meno immediate, caratterizzate da
una certa preferenza per giochi di parole e mediazioni linguistiche.
Opportuno, forse, è anche spendere
alcune parole sulla nuova immagine del cantautore, su quello che gli addetti ai
lavori denominano esterofilamente "look": anche in questo senso sembra esserci
una modifica sostanziale: Claudio sfoggia ora capelli molto più lunghi e,
abbandonati gli abiti d'impostazione hippie dei primi anni
'70, opta per un
abbigliamento più sobrio e di chiara matrice casual.
Concludendo potremmo dunque e
tranquillamente definire quello di Solo il Baglioni della svolta artistica.
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Il disco si apre con Gagarin,
brano che rappresenta la solitudine cosmica di chi decide di "scansare bugie,
volgarità, calunnie, guerre, maschere antigas" per immergersi nella solitaria
immensità di uno spazio pacificatore che viene opposto in modo antitetico alle
assurdità prodotte dall'umana specie. Meglio allora lanciarsi in un'impresa con
gravi incognite per la stessa vita piuttosto che lasciarsi coinvolgere nella
meschinità prodotta dagli uomini. Eppure c'è anche, contemporaneamente, un sano
orgoglio dell'essere uomo, un senso della sfida lanciato ai confini delle
possibilità, una resistenza "titanica" all'avversità e, in senso traslato, al
male incalzante. La musica, in un crescendo progressivo, riesce a produrre
un'ovattata atmosfera che assume perfettamente i connotati dalla scenografia
"spaziale" descritta dal testo. Tale perfezione simbiotica determina una qualità
elevatissima del pezzo che è presumibilmente all'origine della sua longevità: "Gagarin",
riarrangiata e rivestita di nuove musicalità, è stata infatti più volte
riproposta in versioni diverse nei vari concerti "live" anche d'epoca recente:
fatta riscoprire dal suo autore grazie a un'operazione divulgativa che l'ha
finalmente consegnata a una dimensione pubblica, essa è giustamente assurta a
una posizione d'importanza rilevante fra la produzione del nostro cantastorie.
Tale canzone è liberamente tratta da una
lirica del poeta russo Evtushenko.
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Duecento lire di castagne si
dispiega invece attraverso la semplicità di note sinuose e accattivanti per
affrontare il solito tema nell'ottica di un rapporto che la protagonista, stanca
della frustrazione originata dalla monotonia del lavoro in fabbrica e da giorni
sempre uguali, intrattiene con il suo sogno irrealizzabile di fuggire, di
"strapparsi il camice di dosso e rotolare giù e scoprirsi il viso di allegria
per non sospirare più". Tuttavia "un sole pallido e malato è la sua realtà" e
l'unica ancora di salvezza possibile è, nella ripresa del filo conduttore comune
a Sabato pomeriggio, il fatto che "domani è festa e finalmente potrà
svagarsi un po'". Tuttavia, trascorso il weekend illusorio, ecco
improrogabilmente incedere un tedioso lunedì invernale che allungherà la sua
ombra minacciosa di aridità non soltanto sulla stagione meteorologica in
divenire ma anche, e soprattutto, sulla volubile disposizione dell'animo.
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Pur lasciando largo margine alla
tradizione e rifacendosi all'impostazione tipica dei suoi più melodici classici,
Claudio riesce tuttavia a caratterizzare il brano-guida dell'ellepì Solo
inserendo elementi scenici di "interno" ed "esterno" molto affascinanti e che
riescono a colorare la trama di sensibilità nostalgica. In effetti siamo già
oltre la semplicità dei testi precedenti; gli oggetti che circondano i due
protagonisti, ad esempio, interpretano quasi una parte da "testimoni"
nell'ambito della storia che va dispiegandosi: le gru sotto il cielo che
sbiadisce, il tavolo fra il tè e lo scontrino, i clacson delle auto, le campane,
ecc. rimarranno fissate nell'immaginario di quel giorno e ogniqualvolta
riappariranno alla vista rievocheranno quella giornata, quella vicenda,
quell'amore finito. Eppure non c'è terrore della prossima condizione di
solitudine; sembra piuttosto ch'essa sia, paradossalmente, un sicuro rifugio nel
quale abbandonarsi al ricordo e in cui farsi rimarginare le ferite: sia
dimostrazione di questo il verso conclusivo "... da solo continuerò" che
certifica un'evidente volontà di resistenza alle continue asperità della vita.
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Nonostante la poetica di questo lavoro sia di carattere più impegnato, non si
vuole evidentemente rinunziare a quella tradizione che vuole l'inserimento di
almeno un pezzo "giocoso" in ogni album: tale tradizione è qui proseguita con
Romano male malissimo. Tuttavia, andando ad approfondire meglio l'analisi del
testo, si evidenzia che, al di là di una parte musicale allegramente fuorviante,
quella del protagonista è vicenda dalla solitudine dilagante. Anzi, forse egli è
addirittura la personificazione stessa di una solitudine bizzarra e istrionica
che lo separa dal gruppo, dalla società appiattita e dalle mode: eppure egli,
grazie a questo suo modo, a questa sua capacità d'essere diverso, riesce a
ritagliarsi, unico fra i molti, buona parte di una libertà personale così
difficile da carpire e così aspra da poter mantenere. Questo brano pare essere
dedicato a un amico fraterno di Claudio, Romano Petrucci.
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Sempre nel solco della tradizione comune agli album precedenti (Ninna nanna
nanna ninna in E tu... - Sisto V in Sabato pomeriggio),
anche quest'opera comprende un pezzo composto in romanesco: Gesù caro fratello. Esso denunzia,
in maniera abbastanza eloquente, l'abitudine umana di porre la divinità in una
funzione di servizio al suo bisogno e quindi, in un crescendo musicale
dilagante, cerca di riconsegnare a Dio la sua confortante dimensione di sostegno
per l'uomo. In un finale drammaticamente incalzante, la preghiera dell'individuo
consapevole della sua remota solitudine diviene disperatamente supplichevole e
trova, nell'Assoluto consolatore, un'ancora insperata di salvezza per la
dimensione terrena, prima ancora che per quella spirituale. Sottolineiamo che la
canzone era compresa nell'album del 1971 Oltre la
collina di Mia Martini e che
l'autore delle parole è Oremus, pseudonimo misterioso dietro al quale non
sappiamo esattamente chi si celi. È presumibile comunque che l'adattamento in
romanesco sia opera dello stesso Baglioni.
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Note dall'immediata identificazione
sono invece quelle sudamericane che aprono l'ispiratissima Nel sole, nel sale,
nel sud. Grazie al suo viaggio di qualche mese prima, Claudio riesce a rendere
compiutamente, in questo brano, le atmosfere, la "solarità", i colori e i
costumi di una Rio de Janeiro profondamente affascinante e suadente ma che non
fa segreto di mostrare anche i suoi lati intristiti e contraddittori. Così, i
primi accordi carnevaleschi che descrivono musicalmente un'ambientazione allegra
e colorata cedono il terreno ai seguenti, melodici e malinconici; anche il testo
sembra conformarsi, del resto, a questo disegno preordinato: dopo una sintetica
ma efficacissima descrizione "tipologica" ("mezzogiorno si trascina fra l'odor
di pesce fritto nelle strade"), il tema si concentra sulla caratterizzazione
del personaggio principale e unico della vicenda: un anonimo tassista che è
però, presumibilmente, anche il prototipo esemplare di quella poliedrica anima
sudamericana di cui si parlava. Pure se segnato da esperienze drammatiche,
metaforicamente sintetizzate dalla semplice quanto straordinaria espressione
"cicatrici sulle spalle dove le ali non ricresceranno più", egli è tuttavia
proteso verso le atmosfere surrealmente giocose del prossimo Carnevale:
l'imminente e sentitissima festa sembra infatti trascendere ogni cosa reale e
sostituirla con l'immaginario intellettuale di ciascuno. Così questo racconto
d'ennesima solitudine trova un suo significativo anche se solo momentaneo
riscatto nell'espressione generalizzata di questa manifestazione tipicamente
sudamericana, il cui richiamo collettivo è irresistibile e quasi purificatore:
gli affanni quotidiani sono confinati e demandati al tempo ordinario. C'è
presumibilmente, nella narrazione dell'autore che pure pare distaccata, una
sorta di compassionevole comprensione per una situazione umanamente difficile ma
anche, e contemporaneamente, una specie di malcelata invidia per quella
straordinaria cultura, incapace di abbattersi dinanzi a un problema o di porsi
troppi interrogativi esistenziali.
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Per dichiarazione dello stesso Baglioni l'idea della stesura di
Strip-tease
gli deriva da un contatto diretto con la realtà di un locale notturno visitato
in occasione della recente tournée in Germania, per la precisione nella città di
Monaco. Come per Romano male malissimo, l'interpretazione è piuttosto
"leggera" così come il contorno musicale distintamente allegro: in effetti però,
la scorrevolezza del testo rivela la squallida dimensione di un ambiente dimesso
dove ciascuno (attrice e spettatori) ha da tempo perduto la voglia e la speranza
di veder realizzati i suoi progetti. I tanti personaggi descritti così
minuziosamente sono spasmodicamente abbandonati a loro stessi e accomunati in
questo all'interprete principale: una spogliarellista che "non si spoglia più
con fantasia come faceva un tempo quando ha cominciato"; ciò che principalmente
si evince dalla struttura della vicenda è una atmosfera malinconica che si
estende a tutta l'ambientazione e che paradossalmente porta, in queste stanze
contraddistinte da affettata trasgressione, una invece palpabile ed evidente
sensazione di noia.
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Canzone dai toni soffusi ma definita da una scenografia dettagliata,
Il
pivot è brano abbastanza simile, per struttura metrica, a quella Gagarin che
segna l'esordio dell'album. La dimensione domestica del cortile di periferia,
con il suo "odor di cena e di tivvù" è una coreografia straordinariamente
calzante alla sceneggiatura, articolata in un incontro fra un ragazzo qualsiasi
e un presumibile vecchio campione di pallacanestro che improvvisano uno scambio
di "palleggi". La concitazione del gioco e la sua evoluzione ammaliante
determinano suggestioni amplificate dai ricordi che trasformano magicamente il
luogo reale in uno stadio brulicante di folle inneggianti. La stessa musica
accompagna l'incedere del pallone destinato a cadere nel cerchio e a gonfiare la
rete con un inaspettato incremento di tono. Tuttavia, non appena si spegne il
richiamo evocativo, la normalità, il tedio, la solitudine tornano a
impossessarsi non solo del pivot e del ragazzo, ma anche di tutto quell'ambiente
che, per un fuggevole attimo, aveva subito una trasformazione grandiosa. Forse
un po' deluso da questo brusco ritorno allo "status quo", il vecchio e disilluso
campione abbandona la scena crepuscolare con un passo un po' malfermo e con il
pallone, strumento antico delle sue illusioni, ben saldo invece, sotto il
prestante braccio.
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In molte occasioni abbiamo sentito dal nostro artista definire
Quante volte
come una delle sue "figlie predilette", come una delle canzoni per le quali ha
sempre nutrito un affetto particolare. Evidentemente autobiografica, essa
evidenzia una volontà di chiara difficoltà e disagio per una condizione di vita
insoddisfacente. Il dialogo "unilaterale" impostato con una "lei" che se n'è
andata sembra essere in realtà più un pretesto per manifestare la propria rabbia
contro un mondo sbagliato che non il frutto di una delusione amorosa. In effetti
Quante volte non può essere definita come una canzone d'amore. La musica
avvolgente e che diviene in rapida successione quasi opprimente, con la sua
reiterata inflazione di bassi, presta il fianco a un testo abbastanza inusuale
sin qui, impreziosito da alcune espressioni da "scapigliatura" e da "poesia
maledetta". Curiosa l'espressione "giro salto e ballo come un orso ammaestrato"
che, se può riferirsi a una generica difficoltà di poter conquistare una vera
libertà di "movimento", potrebbe anche essere ricondotta, in ambito più
rigorosamente autobiografico e considerato il momento critico dei rapporti, alla
denuncia delle imposizioni della casa discografica. Come e più di Gagarin,
anche quest'ultima canzone ha subito arrangiamenti diversificati e molteplici,
ed è sicuramente uno dei pezzi più riproposti e cantati nelle esibizioni dal
vivo dell'ultimo periodo.
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La disperata richiesta di Puoi?,
volta a ricercare ancora e affannosamente, nonostante tutto, la mai smarrita
speranza, si colora via via d'istantanee piacevoli e delicate che probabilmente
contribuiscono a fare di questo il brano meno drammatico di tutto l'album. Come
a significare che, in ultima analisi, vale comunque la pena di continuare a
guardare la vita "con un vetrino blu" per colorarla dal grigiore con cui spesso
essa si contraddistingue. Interessante rimarcare l'interpretazione vocale che
pare essere diversa dalle precedenti: qui la voce dell'autore è "strascicata",
dolosamente stentorea, improntata a voler creare un'atmosfera rarefatta e
surreale: forse proprio per accompagnare quelle immagini proposte e subito
sostituite da altre, come fossero fotografie malinconiche da alternare su un
album.
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Nel gennaio del 1977, il nuovo
lavoro è pronto per essere pubblicato. I discografici, che per volontà
dell'autore non hanno mai potuto ascoltare alcunché sino al completamento
dell'album stesso, non si sentono di opporre alcuna modifica: i rapporti sono
sempre tesi ma evidentemente i dirigenti della RCA non vogliono disattendere la
grande parte di pubblico che scalpita di ascoltare e di acquistare il nuovo
disco di Baglioni.
Il 33 giri è come sempre supportato dall'immancabile 45 composto da
Solo e da
Quante volte. Sia l'album
che il
singolo saranno editi
anche in idioma castellano.
Anche quest'ultimo lavoro consegue
un ottimo successo e si attesta in vetta alle classifiche di vendita per un buon
periodo, anche se non riesce a bissare lo straordinario e forse inimitabile
successo ottenuto con il precedente Sabato pomeriggio.
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