biografia
a cura di Luca Tempini

Introduzione
 
Prologo
 
L'ambiente
 
Le prime note... di giorno
 
I tentativi
 
Cantante professionista
 
Le canzoni stonate...
 
L'influenza del cinema
 
Ragazzo nell'est
 
Quella sua maglietta fina
 
I giri di Camilla
 
La consacrazione definitiva
 
Il sabato del villaggio
 
Solo in compagnia di sé senza chiedere il permesso...
 
Un nuovo disco e un discografico nuovo
 
Canzoni e una piccola (grande) storia che continua...
 
Alé-oó
 
La canzone del secolo
 
La vita è adesso, il sogno, sempre
 
D'Assolo continuerò
 
Un trovatore perso un cantastorie muto
 
OLTRE
 
Appunti sparsi su quel che c'è
 
Sempre lo stesso, più grigio ma non domo
 
L'anima nuova di Claudio
 
Da me a te e dalla città allo stadio: un progetto lungo un sogno
 
Giri di "valzer" per un viaggiatore
 
Di nuovo "in viaggio" per sapere cosa c'è laggiù...
 
Sogno di una notte di note
 
Come per incanto
 
I concerti irregolari
 
L'uomo della storia accanto
 
Tutti in un abbraccio
 
'O scia'
 
Da cantautore a commendatore
 
Finale in... crescendo
 
Titoli di coda
 
Bibliografia e testi
 
Credimi, CREDITI
 

Solo in compagnia di sé senza chiedere il permesso...

Ebbro di un successo sempre crescente, Claudio affronta, in quell'estate di ampi successi discografici, due mesi di tournee nell'America Latina, dove visita principalmente le città di Rio de Janeiro, Buenos Aires, Lima e Città del Messico. Rimane molto colpito dal costume e dalla cultura di queste nuove realtà che ha la possibilità di vedere per la prima volta con i propri occhi; è lui stesso che declama il suo meravigliato stupore a margine di un'intervista rilasciata qualche tempo dopo, per un noto settimanale: "Parlare di Rio non è facile. È stata definita la città più bella del mondo. Una città che sembra duecento città messe insieme, con duemila problemi e due milioni di contraddizioni. Città di bellezze naturali, città industriale, città del futuro, città del caos, città ricca, città dalle mille baracche, città felice, che piange. Una città che vive a ritmo di samba: un samba lento il giorno, un samba nervoso e interminabile la notte. Tutto è samba: ci si sveglia, si cammina, si lavora, ci si incontra, si aspetta, si ama, ci si lascia, si parla "sambando". La musica è proprietà di tutti. È come il pane, come l'acqua. Che si può dire della gente di Rio... gente che vive, lavora, balla, cuce costumi, inventa canzoni un anno intero, aspettando il Carnevale e ognuno sogna, durante quattro giorni di pazzia, di gioia, di violenza, di essere un re. Come definire questa gente che canta la propria tristezza, la rabbia, la fatica, la nostalgia (la "saudade" di tante canzoni) con un sorriso sulle labbra? Fa bene o male? Io non lo so!... So solo che questa gente esiste e sta qui...".
A Buenos Aires non si lascia sfuggire la possibilità di rincontrare il suo vecchio insegnante di pianoforte, il maestro Nicolas Amato. Quest'ultimo si proporrà, tra l'altro, quale prioritario collaboratore nella stesura di molte delle traduzioni in castellano, da destinare al mercato sudamericano, dei suoi pezzi precedenti e successivi.
Al ritorno, oltre a essersi fatto conoscere personalmente dal pubblico sudamericano, ha anche assimilato e recepito le sfumature di quella filosofia di vita così lontana dalla nostra; immagini, personaggi e consuetudini gli rimangono dentro e gli serviranno anche, in un futuro abbastanza prossimo e imminente, per rimpinguare il proprio bagaglio professionale e artistico.

Il 19 luglio (sempre del '75), Claudio viene invitato alla trasmissione Senza Rete, all'interno della quale si esibisce in un vero e proprio piccolo concerto. Tutte le canzoni ivi proposte denotano arrangiamenti più o meno diversi dalle versioni originali; tali arrangiamenti sono, per l'occasione, curati dal "maestro" della RAI, Tony De Vita. Oltre a canzoni passate e recenti della sua produzione classica, è importante sottolineare l'interpretazione inedita di Marinetta.

Nel settembre di quello stesso, operoso anno, canta dal vivo Poster al Festivalbar fra il tripudio di quelli che sono ormai da considerare come suoi fan esclusivi. Baglioni è ormai, dichiaratamente, un evento musicale.

Tuttavia, dopo una breve e sporadica apparizione pubblica a Venezia, in gennaio, per presenziare al Galà dell'Unicef, il 1976 trascorre senza che si senta parlare di Claudio Baglioni, né viene stampato alcun album d'inediti, come il cantautore dal 1972 aveva abituato a fare con scadenza annuale.
La stampa, i fan, l'opinione pubblica in generale iniziano a interrogarsi su questa reiterata assenza, mentre la RCA teme che si esaurisca il momento propizio, che termini cioè quell'ondata di entusiasmo che sommerge il cantautore a ogni nuovo lavoro; essa si fa sempre più opprimente nei confronti di Baglioni, consigliandogli di realizzare un qualsivoglia disco, anche puntando su brani simili a quelli precedenti per addivenire a una pubblicazione immediata: secondo i discografici, infatti, proprio per le attese consolidate, qualunque prodotto realizzato avrebbe conseguito un facile successo.
Ma proprio questi angusti confini nei quali si sente costretto, questo obbligo di eseguire "canzoni su commissione" allontanano maggiormente l'autore dai suoi discografici e ne determinano l'ennesima crisi professionale e artistica. Come per le volte precedenti, tuttavia, questo difficile travaglio rende il successivo parto ancora più fecondo e produttivo: deciso a far valere la propria autonomia, si ritira in solitudine e, senza la consueta supervisione di Coggio, Claudio firma le nuove musiche e i testi, si occupa degli arrangiamenti in accoppiata con Toto Torquati, si supervisiona e si autoproduce. Nasce anche da questa necessità di autosufficienza il titolo del nuovo LP, che si chiamerà appunto Solo e che segna un solco indelebile fra quella prima produzione, descritta sino a ora, e quella ventura, destinata a differenziarsi da quella precedente in maniera così profonda.

Solo è innanzitutto un disco di grandi atmosfere, dove si distingue una passione quasi viscerale per la solitudine, tema comune denominatore di ogni canzone: se essa è, da una parte, condizione involontaria dei personaggi protagonisti delle varie storie, dall'altra è anche l'accompagnatrice per il cui tramite si caratterizzano e trovano piena espressione di loro: è catarsi necessaria in virtù della quale essi si riscoprono capaci di alternare alla dimensione reale e insoddisfacente quella onirica e parallela dell'immaginario. Un disco dalla struttura complessa che distende interrogativi inquietanti sulla reale portata della vita. La stessa copertina pare essere molto soffusa, scura e semplicemente didascalica; essa rivela, in una piccola fotografia discosta, un Baglioni insolitamente corrucciato e pensieroso, come a dispiegare in un'icona la struttura interrogativa che permea l'intero lavoro. Come nello schema inaugurato con Sabato pomeriggio, anche la sceneggiatura di Solo muove personaggi di svariato tipo, diversi fra loro per estrazione sociale, cultura e impostazione ideologica qui accomunati dal medesimo senso di solitudine. Rispetto al lavoro precedente, tuttavia, la posizione del narratore pare essere meno coinvolta emotivamente nelle vicende dei personaggi e disposta piuttosto all'osservazione neutrale. Quelle ivi raccontate sono vicende ordinarie che si sviluppano senza una sensibile mediazione di chi le racconta e per questo più improntate a soddisfare un certo evidente verismo narrativo.
Sta forse proprio qui il distacco più netto nei confronti di una produzione precedente, disposta piuttosto a coinvolgere l'autore direttamente. Questa differenziazione consente ora un maggiore approfondimento di temi "esterni" che da questo ellepì iniziano a essere trattati in modo probabilmente meno "sentimentale" ma certamente più maturo e disincantato.
Lo stesso linguaggio denota ora espressioni meno immediate, caratterizzate da una certa preferenza per giochi di parole e mediazioni linguistiche.

Opportuno, forse, è anche spendere alcune parole sulla nuova immagine del cantautore, su quello che gli addetti ai lavori denominano esterofilamente "look": anche in questo senso sembra esserci una modifica sostanziale: Claudio sfoggia ora capelli molto più lunghi e, abbandonati gli abiti d'impostazione hippie dei primi anni '70, opta per un abbigliamento più sobrio e di chiara matrice casual.

Concludendo potremmo dunque e tranquillamente definire quello di Solo il Baglioni della svolta artistica.

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Il disco si apre con Gagarin, brano che rappresenta la solitudine cosmica di chi decide di "scansare bugie, volgarità, calunnie, guerre, maschere antigas" per immergersi nella solitaria immensità di uno spazio pacificatore che viene opposto in modo antitetico alle assurdità prodotte dall'umana specie. Meglio allora lanciarsi in un'impresa con gravi incognite per la stessa vita piuttosto che lasciarsi coinvolgere nella meschinità prodotta dagli uomini. Eppure c'è anche, contemporaneamente, un sano orgoglio dell'essere uomo, un senso della sfida lanciato ai confini delle possibilità, una resistenza "titanica" all'avversità e, in senso traslato, al male incalzante. La musica, in un crescendo progressivo, riesce a produrre un'ovattata atmosfera che assume perfettamente i connotati dalla scenografia "spaziale" descritta dal testo. Tale perfezione simbiotica determina una qualità elevatissima del pezzo che è presumibilmente all'origine della sua longevità: "Gagarin", riarrangiata e rivestita di nuove musicalità, è stata infatti più volte riproposta in versioni diverse nei vari concerti "live" anche d'epoca recente: fatta riscoprire dal suo autore grazie a un'operazione divulgativa che l'ha finalmente consegnata a una dimensione pubblica, essa è giustamente assurta a una posizione d'importanza rilevante fra la produzione del nostro cantastorie. Tale canzone è liberamente tratta da una lirica del poeta russo Evtushenko.
 

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Duecento lire di castagne si dispiega invece attraverso la semplicità di note sinuose e accattivanti per affrontare il solito tema nell'ottica di un rapporto che la protagonista, stanca della frustrazione originata dalla monotonia del lavoro in fabbrica e da giorni sempre uguali, intrattiene con il suo sogno irrealizzabile di fuggire, di "strapparsi il camice di dosso e rotolare giù e scoprirsi il viso di allegria per non sospirare più". Tuttavia "un sole pallido e malato è la sua realtà" e l'unica ancora di salvezza possibile è, nella ripresa del filo conduttore comune a Sabato pomeriggio, il fatto che "domani è festa e finalmente potrà svagarsi un po'". Tuttavia, trascorso il weekend illusorio, ecco improrogabilmente incedere un tedioso lunedì invernale che allungherà la sua ombra minacciosa di aridità non soltanto sulla stagione meteorologica in divenire ma anche, e soprattutto, sulla volubile disposizione dell'animo.
 

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Pur lasciando largo margine alla tradizione e rifacendosi all'impostazione tipica dei suoi più melodici classici, Claudio riesce tuttavia a caratterizzare il brano-guida dell'ellepì Solo inserendo elementi scenici di "interno" ed "esterno" molto affascinanti e che riescono a colorare la trama di sensibilità nostalgica. In effetti siamo già oltre la semplicità dei testi precedenti; gli oggetti che circondano i due protagonisti, ad esempio, interpretano quasi una parte da "testimoni" nell'ambito della storia che va dispiegandosi: le gru sotto il cielo che sbiadisce, il tavolo fra il tè e lo scontrino, i clacson delle auto, le campane, ecc. rimarranno fissate nell'immaginario di quel giorno e ogniqualvolta riappariranno alla vista rievocheranno quella giornata, quella vicenda, quell'amore finito. Eppure non c'è terrore della prossima condizione di solitudine; sembra piuttosto ch'essa sia, paradossalmente, un sicuro rifugio nel quale abbandonarsi al ricordo e in cui farsi rimarginare le ferite: sia dimostrazione di questo il verso conclusivo "... da solo continuerò" che certifica un'evidente volontà di resistenza alle continue asperità della vita.
 

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Nonostante la poetica di questo lavoro sia di carattere più impegnato, non si vuole evidentemente rinunziare a quella tradizione che vuole l'inserimento di almeno un pezzo "giocoso" in ogni album: tale tradizione è qui proseguita con Romano male malissimo. Tuttavia, andando ad approfondire meglio l'analisi del testo, si evidenzia che, al di là di una parte musicale allegramente fuorviante, quella del protagonista è vicenda dalla solitudine dilagante. Anzi, forse egli è addirittura la personificazione stessa di una solitudine bizzarra e istrionica che lo separa dal gruppo, dalla società appiattita e dalle mode: eppure egli, grazie a questo suo modo, a questa sua capacità d'essere diverso, riesce a ritagliarsi, unico fra i molti, buona parte di una libertà personale così difficile da carpire e così aspra da poter mantenere. Questo brano pare essere dedicato a un amico fraterno di Claudio, Romano Petrucci.
 

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Sempre nel solco della tradizione comune agli album precedenti (Ninna nanna nanna ninna in E tu... - Sisto V in Sabato pomeriggio), anche quest'opera comprende un pezzo composto in romanesco: Gesù caro fratello. Esso denunzia, in maniera abbastanza eloquente, l'abitudine umana di porre la divinità in una funzione di servizio al suo bisogno e quindi, in un crescendo musicale dilagante, cerca di riconsegnare a Dio la sua confortante dimensione di sostegno per l'uomo. In un finale drammaticamente incalzante, la preghiera dell'individuo consapevole della sua remota solitudine diviene disperatamente supplichevole e trova, nell'Assoluto consolatore, un'ancora insperata di salvezza per la dimensione terrena, prima ancora che per quella spirituale. Sottolineiamo che la canzone era compresa nell'album del 1971 Oltre la collina di Mia Martini e che l'autore delle parole è Oremus, pseudonimo misterioso dietro al quale non sappiamo esattamente chi si celi. È presumibile comunque che l'adattamento in romanesco sia opera dello stesso Baglioni.
 

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Note dall'immediata identificazione sono invece quelle sudamericane che aprono l'ispiratissima Nel sole, nel sale, nel sud. Grazie al suo viaggio di qualche mese prima, Claudio riesce a rendere compiutamente, in questo brano, le atmosfere, la "solarità", i colori e i costumi di una Rio de Janeiro profondamente affascinante e suadente ma che non fa segreto di mostrare anche i suoi lati intristiti e contraddittori. Così, i primi accordi carnevaleschi che descrivono musicalmente un'ambientazione allegra e colorata cedono il terreno ai seguenti, melodici e malinconici; anche il testo sembra conformarsi, del resto, a questo disegno preordinato: dopo una sintetica ma efficacissima descrizione "tipologica" ("mezzogiorno si trascina fra l'odor di pesce fritto nelle strade"), il tema si concentra sulla caratterizzazione del personaggio principale e unico della vicenda: un anonimo tassista che è però, presumibilmente, anche il prototipo esemplare di quella poliedrica anima sudamericana di cui si parlava. Pure se segnato da esperienze drammatiche, metaforicamente sintetizzate dalla semplice quanto straordinaria espressione "cicatrici sulle spalle dove le ali non ricresceranno più", egli è tuttavia proteso verso le atmosfere surrealmente giocose del prossimo Carnevale: l'imminente e sentitissima festa sembra infatti trascendere ogni cosa reale e sostituirla con l'immaginario intellettuale di ciascuno. Così questo racconto d'ennesima solitudine trova un suo significativo anche se solo momentaneo riscatto nell'espressione generalizzata di questa manifestazione tipicamente sudamericana, il cui richiamo collettivo è irresistibile e quasi purificatore: gli affanni quotidiani sono confinati e demandati al tempo ordinario. C'è presumibilmente, nella narrazione dell'autore che pure pare distaccata, una sorta di compassionevole comprensione per una situazione umanamente difficile ma anche, e contemporaneamente, una specie di malcelata invidia per quella straordinaria cultura, incapace di abbattersi dinanzi a un problema o di porsi troppi interrogativi esistenziali.
 

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Per dichiarazione dello stesso Baglioni l'idea della stesura di Strip-tease gli deriva da un contatto diretto con la realtà di un locale notturno visitato in occasione della recente tournée in Germania, per la precisione nella città di Monaco. Come per Romano male malissimo, l'interpretazione è piuttosto "leggera" così come il contorno musicale distintamente allegro: in effetti però, la scorrevolezza del testo rivela la squallida dimensione di un ambiente dimesso dove ciascuno (attrice e spettatori) ha da tempo perduto la voglia e la speranza di veder realizzati i suoi progetti. I tanti personaggi descritti così minuziosamente sono spasmodicamente abbandonati a loro stessi e accomunati in questo all'interprete principale: una spogliarellista che "non si spoglia più con fantasia come faceva un tempo quando ha cominciato"; ciò che principalmente si evince dalla struttura della vicenda è una atmosfera malinconica che si estende a tutta l'ambientazione e che paradossalmente porta, in queste stanze contraddistinte da affettata trasgressione, una invece palpabile ed evidente sensazione di noia.
 

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Canzone dai toni soffusi ma definita da una scenografia dettagliata, Il pivot è brano abbastanza simile, per struttura metrica, a quella Gagarin che segna l'esordio dell'album. La dimensione domestica del cortile di periferia, con il suo "odor di cena e di tivvù" è una coreografia straordinariamente calzante alla sceneggiatura, articolata in un incontro fra un ragazzo qualsiasi e un presumibile vecchio campione di pallacanestro che improvvisano uno scambio di "palleggi". La concitazione del gioco e la sua evoluzione ammaliante determinano suggestioni amplificate dai ricordi che trasformano magicamente il luogo reale in uno stadio brulicante di folle inneggianti. La stessa musica accompagna l'incedere del pallone destinato a cadere nel cerchio e a gonfiare la rete con un inaspettato incremento di tono. Tuttavia, non appena si spegne il richiamo evocativo, la normalità, il tedio, la solitudine tornano a impossessarsi non solo del pivot e del ragazzo, ma anche di tutto quell'ambiente che, per un fuggevole attimo, aveva subito una trasformazione grandiosa. Forse un po' deluso da questo brusco ritorno allo "status quo", il vecchio e disilluso campione abbandona la scena crepuscolare con un passo un po' malfermo e con il pallone, strumento antico delle sue illusioni, ben saldo invece, sotto il prestante braccio.
 

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In molte occasioni abbiamo sentito dal nostro artista definire Quante volte come una delle sue "figlie predilette", come una delle canzoni per le quali ha sempre nutrito un affetto particolare. Evidentemente autobiografica, essa evidenzia una volontà di chiara difficoltà e disagio per una condizione di vita insoddisfacente. Il dialogo "unilaterale" impostato con una "lei" che se n'è andata sembra essere in realtà più un pretesto per manifestare la propria rabbia contro un mondo sbagliato che non il frutto di una delusione amorosa. In effetti Quante volte non può essere definita come una canzone d'amore. La musica avvolgente e che diviene in rapida successione quasi opprimente, con la sua reiterata inflazione di bassi, presta il fianco a un testo abbastanza inusuale sin qui, impreziosito da alcune espressioni da "scapigliatura" e da "poesia maledetta". Curiosa l'espressione "giro salto e ballo come un orso ammaestrato" che, se può riferirsi a una generica difficoltà di poter conquistare una vera libertà di "movimento", potrebbe anche essere ricondotta, in ambito più rigorosamente autobiografico e considerato il momento critico dei rapporti, alla denuncia delle imposizioni della casa discografica. Come e più di Gagarin, anche quest'ultima canzone ha subito arrangiamenti diversificati e molteplici, ed è sicuramente uno dei pezzi più riproposti e cantati nelle esibizioni dal vivo dell'ultimo periodo.
 

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La disperata richiesta di Puoi?, volta a ricercare ancora e affannosamente, nonostante tutto, la mai smarrita speranza, si colora via via d'istantanee piacevoli e delicate che probabilmente contribuiscono a fare di questo il brano meno drammatico di tutto l'album. Come a significare che, in ultima analisi, vale comunque la pena di continuare a guardare la vita "con un vetrino blu" per colorarla dal grigiore con cui spesso essa si contraddistingue. Interessante rimarcare l'interpretazione vocale che pare essere diversa dalle precedenti: qui la voce dell'autore è "strascicata", dolosamente stentorea, improntata a voler creare un'atmosfera rarefatta e surreale: forse proprio per accompagnare quelle immagini proposte e subito sostituite da altre, come fossero fotografie malinconiche da alternare su un album.
 

Nel gennaio del 1977, il nuovo lavoro è pronto per essere pubblicato. I discografici, che per volontà dell'autore non hanno mai potuto ascoltare alcunché sino al completamento dell'album stesso, non si sentono di opporre alcuna modifica: i rapporti sono sempre tesi ma evidentemente i dirigenti della RCA non vogliono disattendere la grande parte di pubblico che scalpita di ascoltare e di acquistare il nuovo disco di Baglioni.
Il 33 giri è come sempre supportato dall'immancabile 45 composto da Solo e da Quante volte. Sia l'album che il singolo saranno editi anche in idioma castellano.

Anche quest'ultimo lavoro consegue un ottimo successo e si attesta in vetta alle classifiche di vendita per un buon periodo, anche se non riesce a bissare lo straordinario e forse inimitabile successo ottenuto con il precedente Sabato pomeriggio.