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del 06/06/98

Il Messaggero
Claudio, da Porta Portese all’Olimpico

di Claudio Baglioni

QUANDO eravamo ragazzi e ci aggiravamo per Roma avevamo quattro o cinque mete irrinunciabili: il Luna Park dell’Eur, Porta Portese, Villa Borghese, Trastevere e, di sera, lo Zodiaco di Monte Mario per vedere Roma dall’alto tutta illuminata e soprattutto per vedere lo Stadio Olimpico. Siccome poi nessuno riusciva ad individuarlo, puntualmente nascevano discussioni sulla sua esatta ubicazione e puntualmente ci si riprometteva di tornare di giorno a controllare. Ma, chissà perché, di giorno non ci siamo mai tornati. Ora lo so: dallo Zodiaco l’Olimpico non si vede. Punto.
Per questo motivo sono salito a Monte Mario, ma più spostato verso sinistra, per vederlo finalmente in tutta la sua ellitticità. Sì, perché ellittico lo è anche in senso metaforico perché tra un po’ non si saprà più se è un tempio del calcio o della musica.
Più in là c’è il Tevere che sembra “’na cintura” e mi viene in mente la Roma degli stornelli dove le ragazze si chiamavano ’’ciumache’’ (lumache) (ma veramente le chiamavano così?). Subito scatta l’involontario Bei Tempi Quando si andava lungo il Tevere ed era troppo bello per essere vero, oggi è troppo bello per essere vero quando lungo il Tevere trovi un parcheggio. Ma poi penso che l’oggi diventerà il ’’Bei Tempi Quando’’ dei nostri figli e allora forse questa è la magia, il segreto del presente, l’adesso della vita.
E guardo questo stadio della mia carriera con il sistema nervoso alla deriva, ma cosciente di giocare il gioco del rimettersi in gioco e, come diceva Ronaldo (ma guarda un po’) Laing, di non vedere che vedo il gioco.
E fissando quella che dal 22 maggio è diventata la mia nuova residenza, un villone plurifamiliare con giardino interno e ampio parcheggio, potrei anche assomigliare a un aedo della gens Claudia che, dall’alto del tempio del divo Claudio sul Celio, guarda il Colosseo sperando che i leoni lo scambino per Orfeo e che non siano sordi.
E’ vero che, per citare Hrabal, siamo come le olive: diamo il meglio di noi quando siamo sotto pressione, ma non vorrei rischiare la sansa (che non è un ballo sudamericano).
Perdonatemi le citazioni, ma devo dare un colpo al cerchio e uno alla botte e forse anche al tino e alla damigiana, perché accontentare tutti è un’impresa titanica. C’è chi dice che ci vuole coraggio civile a scrivere ’’un cane che abbaia alla malinconia’’ e chi chiede ’’dov’è finito il Baglioni che cantava un cane che abbaia alla malinconia?». E pensare che io mi sento più musicista che paroliere e mi sogno una recensione squisitamente musicale!
A volte mi chiedono se mi sento più maître à penser o più prete à porter e io vorrei tanto rispondere che mi sento più semplicemente un port à portes.
Il pressing dell’evento, ormai, è a tutto campo e cerco lo schema migliore per affrontarlo, ma tra il 4-3-3 e il 4-4-2 oggi scelgo il 3-3 giù giù che è un gioco che si faceva a scuola a cavallo dei compagni.
Forse la chiave è questa: l’innocenza e l’onestà del gioco, la generosità di chi non si tira indietro. Sì, il passerotto è diventato falco senza dimenticare chi era, ma sempre libero nelle traiettorie e fedele alle leggi dell’aria e dell’azzurro. Questa sera nasconderò l’agitazione e le magagne, ma il cuore non lo nasconderò mai.


Articolo segnalato da Caterina.