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del 01/05/91

King
Un Claudio Baglioni davvero "Oltre"
Avanzo di Balera

di Guido Harari


Esce il suo ultimo album, “Oltre”, e vende subito seicentomila copie; ai suoi concerti le folle sono, ovviamente, oceaniche; i soldi? Come se piovesse. Claudio Baglioni, l'idolo di tre generazioni di ragazze, è abituato ai grandi numeri ma è ancora capace di stupire. Per esempio, scrivendo canzoni che definisce “una sfida ai buonsenso”. Oppure cantando a sorpresa, senza pubblicità né megastrutture, nelle balere della bassa Padana, immerso in un pubblico stupito e delirante. In questa atmosfera, strana-ma-vera, Guido Harari l'ha fotografato e intervistato. E un Baglioni così non l'avete visto (né sentito) mai.

Sabato grasso in bassa Padana e il balerone, un nome che è tutto un programma, “Sandalo Cinese” di Stradella, si affolla rapidamente. Tira aria da Vitelloni o giù di lì: ai tavoli, naturalmente riservati, signore insospettabili esibiscono baffi alla Groucho Marx, incuranti dei coniugi boccheggianti nonché dei lazzi dei basilischi locali; gioventù in maschera gabibbeggia e altro negli angoli più appartati mentre sul “fronte del palchetto” un centinaio di sfegatati/e vanno in fibrillazione per il cantante che non si dà tregua e s'intorcina sul microfono, si sbatte per terra con chitarra e tutto, sprizza sudore “proprio come el Gèggher”.
Lo smandrappo sulle note di E tu è all'apice, ma le signore Marx (Groucho, naturalmente) insistono nel voltare le spalle alla scena preferendo andar di vasca con i notabili del luogo. Ma come diavolo c'è piovuto qui il cantante-miliardo, assolutamente in incognito (o quasi), senza tam tam promozionale né il solito spiegamento di Tir, superampli e megapalco? Non è Wembley Arena e neppure San Siro. Che razza di sgangherata Rolling Thunder Revue è mai questa per Claudio Baglioni al giro di boa dei quarant'anni?
"Non c'è nessuna responsabilità qui, niente da dimostrare, nessuna megastruttura", racconta lui con entusiasmo in un cessetto di camerino. "Vai, infili il jack nell'amplificatore e via, Pensa che quelli lì, i Ringo's Story [la house band di quello che non può certo dirsi lo Stone Pony lumbard, n.d.r.], hanno il mixer sul palco, noi manco quello. Addio quindi a quelle muffe che ti vengono dall'aver suonato per venticinque anni di tutto, con tutti, per tutti... La prima sera eravamo proprio felici e un po' pivelli: sai, quando alla fine ci si abbraccia tutti dandosi le botte e dicendosi: "Sei stato forte!". Io non mi ricordo di aver mai provato questa sensazione: siamo quasi un gruppo e non più il cantante con quattro schiavi musicisti. Suonare è l'unico momento in cui si lasciano fuori tutte le rogne, specialmente quelle del "mestiere", l'unica vera oasi di libertà, e due sere fa addirittura ho creduto di trovarmi ad una festicciola privata: manco era una discoteca, ma piuttosto un salotto, con la gente che ti fa: "Cantaci quella canzone lì". Mi sono detto, ecco risolto l'annoso problema di essere divo o anti-divo, sempre insicuro, ambiguo e generalmente antipatico".
Chi conosce Baglioni sa di quel suo gusto giocoso dell'iperbole e di una guinnessmania ruspante e rampante. Ma stavolta, a sentir lui, non è così. Sgravatosi di un album gemellare, Oltre (roba da Steely Dan, due anni di lavorazione, superospiti internazionali e costi record da far ingiallire ancor di più i signori della Sony), il cantante assicura d'avere ritrovato "la sensazione delle cantine anni Sessanta, di quando provavo a Centocelle, sul balcone di casa mia con sette-chitarristi-sette", suonando in una casa e non nel solito teatro o studio di registrazione. "Ho deciso di buttar via tutto il cerimoniale classico, i grandi annunci, la conferenza stampa. Per farlo non si poteva andare in posti qualsiasi e l'unico ambiente che ancora raccoglie tanta gente è il locale da ballo, il luogo dove fino alla metà degli anni Settanta gli artisti di maggior successo si esibivano per almeno 45 minuti come da contratto, dalle dieci e mezza a mezzanotte. Non s'è trattato di un ritorno al futuro o al passato perché le mie sensazioni non sono più quelle di allora. All'epoca era un lavoro mentre adesso mi diverte proprio andar su a suonare con uno spettacolo che potremmo rifare tale e quale in uno stadio, ma con una sensazione di maggior allegria e di grande comunione con i musicisti. Mi diverte ritrovarmi semplice orchestrale, con la gente che ti tira addosso della roba perché magari gli interrompi il ballo, gli rovini il rimorchio o gli togli la voglia d'andarsi a bere un whisky. Be', io sarei corso a slamettarmi in bagno se mi fosse capitato qualcosa del genere quando facevo i locali vent'anni fa. Ho fatto il mio disco più controverso e ho avuto magari momenti migliori, ma ho allontanato ogni ansia, non esiste più panico, non può essere tutto sempre e solo serio o preso sul serio. Ci sono state sere in cui non c'era nulla di liturgico".
Annunciato per Natale di due anni fa da una grottesca campagna promozionale che ha consentito alla casa discografica di avviare prenotazioni per un disco non ancora terminato e ai negozianti di lucrare su un prodotto inesistente, Oltre ha avuto un'uscita record iniziale di 600 mila copie (un milione e due considerando che è un doppio), poi il silenzio. L'album è il più complesso e ambizioso della discografia di Baglioni, corredato da un interminabile racconto parallelo (titolato Gusci di testi), sorta di chilometrica seduta psicoanalitica. Un compitino a casa mica male per quei fan abituati a gorgheggiare ritornelli in attesa dell'inevitabile tournée.
Ecco allora il cantautore concedersi come mai prima ad un massiccio quanto inatteso battage promozionale. Per panico, per spiazzamento o per ridimensionare una minidisfatta annunciata? "È un disco-muro", ammette Baglioni. "Quindi è già un progetto che va raccontato, non è possibile lasciarlo lì, eppure dieci giorni dopo averlo finito non ci credevo per niente. Sapevo che avrebbe creato consensi e dissensi, tipo "mamma mia, ma che è? Una cosa senza senso, un mucchio di parole!", ma quello che mi ha fatto più paura ad un certo punto è stato il non riuscire più a suonare e cantare dopo l'incidente di macchina che ho subito. Oltre non è il disco di nessuno: con una banale definizione dico che è una sfida al buonsenso. Da qualche anno molti artisti, proprio in un momento in cui non c'è più voglia di provocare, scelgono la strada della gradevolezza e questo viene anche tollerato dai critici. Io ho fatto forse il mio disco più autentico proprio perché confuso, meno monotematico perché pieno di contrasti come sono poi io... Io sono di quelli che ogni tanto, se non esagerano un po', si sentono i geometri di pianura che sono sempre stati... Adesso credo enormemente in questo album. Mi rendo conto che è stato un bell'impegno per tutti, ma forse andrebbe riascoltato, riveduto e corretto nei giudizi che ne hanno dato.
"In altri momenti, questo dissenso mi avrebbe ferito, perché volevo piacere veramente a tutti, oggi mi tocca meno. Dopo che il disco aveva venduto nei primi due-tre giorni più di duecentomila copie, una cifra paurosa!, una mattina mi sono svegliato sicuro che si sarebbe fermato. Per la prima volta non ho avuto il problema di voler sapere a tutti i costi l'andamento delle vendite, la posizione in classifica e tutto il resto. È un disco un po' egoista, un disco fra me e me. In una lettera mi si chiedeva: "Ma il fatto che il disco sia in prima persona vuol dire mancanza di creatività?". Forse è così, ma ricordo quando Giuseppe Berto mi disse una volta: "Voi cantautori ci stare rubando il mestiere, voi sì che siete contemporanei a questa società. Il problema non è tanto di scrivere bene o male, ma di arrivare a scrivere in prima persona. Molti scrittori ci arrivano solo verso i cinquanta-sessant'anni, dopo essersi travestiti da donna, da ragazzino, da automobile, da muro, senza mai dire però IO!". Così ho pensato che sarebbe stato più stimolante dire "io"; basta con Gagarin, esploratori, astronauti, ragazzette, mamme e papà".
"Pe' fa' la vita meno amara ho cominciato a risonare 'sta ghitara", improvvisa Baglioni durante le prove del giorno dopo, discoteca di turno il "Rosa Shocking" di Roasio, nel Vercellese. Un'isola di ironia in un mare di riflessioni scomode e spesso sgradevoli. "Fino a ieri ero quello tranquillo e tranquillizzante, quello del centro, della maggioranza silenziosa, porella, sottoculturale, nazional-popolare", ammette riguardo all'etichetta inalienabile di Grande Ecumenico della canzone italiana. "Ma un giorno, chissà, quando tutti invece si purgheranno, senza nemmeno sapere più che cosa erano e senza più vergognarsi di dichiarare il loro cambiamento, può darsi allora che io diventi il simbolo... del dissenso!". Ride.
Ma chi si sente davvero di rappresentare il Baglioni di oggi? Urta qualche variopinta e composita trasversalità? "Potrei essere il simbolo del pudore, che è già qualcosa in una società dove ormai si mostra più il sedere che il cuore. Il dubbio è che sia impudico questo mio essere cantante, cantautore, ma lo risolvo, pur con alcune riserve, pensando che, attraverso le cose che canti e scrivi, puoi anche raccontare qualcosa a qualcuno che ti è molto vicino, qualcosa che magari non sei mai riuscito a dire a voce: è solo questo, una canzone, manco un opera d'arte. Ma impegno e disimpegno dove vanno a finire quando tutto viene destituito di importanza in questo andazzo cialtrone? Quando stavo scrivendo Le mani e l'anima, la canzone che canto con Youssou N'Dour, volevo dire la mia, un piccolo pensiero, neppure una visione politica o filosofica, sul conflitto Nord-Sud, sull'emarginazione e sul razzismo: sentivo che noi occidentali non dovevamo assolutamente perdere questo concetto di Africa come cultura e società che devono sopravvivere in totale autonomia senza essere importate, sfruttate e ridotte a una parodia finto-occidentale. Poi mi sono detto, ma che fai, l'opinionista? Lo stesso pudore mi stava imponendo ad un certo punto di non mettere la parola Tien An Men nella canzone Tieni a mente, ma le parole non nascono per caso. Naso di falco, si dice, è molto baglioniana perché racconta il sogno di volare solitario là dove esiste solo verità. Lo so che è un po' la scoperta dell'acqua calda, ma è quello che io cerco davvero, che anche altri cercano pensando a questa impossibilità di sapere la verità, al desiderio di vivere in un Paese che ha fatto pace con i suoi grandi drammi senza forzatamente dover rimuovere tutto. Forse basterebbe solo sapere, neanche poi combattere e neppure voler vendicare"
Già da prima dello spettacolo, Baglioni non si sottrae al rituale degli autografi. C'è anche chi tra le lacrime si porta via una superdedica del tipo. "A Marina, con tutto l'azzurro che il cielo può dare". E allora, Gran Mago? Qui c'è puzza di abbruciaticcio, o no? Il mito, eternamente il mito. Il cantante abbozza un sorriso marpione. "Questo è un disco che non consola, che apre semmai delle ferite senza dare risposte. Non posso essere sempre quello che canta che il domani sarà migliore, che comunque la vita va bene. Per questo ho voluto fuggire dallo spettacolo cosiddetto "aggregante", perché l'aggregazione è per forza di cose gioiosa. Come artista, dovermi dare sempre questa patina di bontà, che tanto ce la faremo, sai, we shall overcome. Ma poi, dove sta più la bontà? Affrontando tutta una serie di telefonate in diretta nelle radio, ho scoperto panorama devastante di un pubblico misto tra i 15 e i 20 anni, per il quale sembra che non ci sia più niente, non un soggetto d'amore, non un soggetto di affermazione qualsiasi nella vita.
E allora c'è questa cosa molto responsabilizzante, del genere sei-tu-il-mio-unico-amico, che non può non metterti a disagio. Forse il pubblico è generazionalmente più giovane e, affacciandosi alla vita, trova il simbolo più vicino in chi fa musica. Per fortuna, è un momento di passaggio e poi finisce questo rapporto sfiatato con la musica intesa come compagno di viaggio, colonna sonora, come cosa dentro la quale vivere e trovare motivi di esistenza. Peccato però che la musica sia diventata sempre più un optional. Io adesso ci credo veramente alla musica: ha una sua purezza, è più istintiva, più... pelosa, ha le carie… nella musica si sentono le carie, capisci?".
Nell'album Oltre, Claudio Baglioni tocca questa volta in maniera più diretta ma sempre soft diversi temi sociali. Per quanti hanno creduto bene di stigmatizzare la sua partecipazione al concerto Human Rights Now! a Torino due anni fa, con Peter Gabriel, Bruce Springsteen, Sting, Tracy Chapman e Youssou N'Dour, l'artista continua a non avere la credibilità e lo spessore sufficienti per affrancarsi da una leggenda ingombrante.
Sempre questione di carie o c'è dell'altro? E cosa rimane oggi di quell'esperienza? "Certe cose le ho scritte con un'ingenuità colossale, tipo Chi ha schiacciato i cuori dell'Heysel o Tieni a mente Tien An Men", riconosce Baglioni difendendo la sua buona fede. "Ma io non ho nessuna pretesa di scrivere canzoni d'impegno ed è curioso che per il mio disco si sia sconfinati addirittura nella filosofia quando qualcuno ha detto "un percorso cosmogonico", rapportandolo addirittura all'Ulisse di Joyce. Su Torino, è per me un fatto positivo aver capito d'aver sbagliato tutto il prima; ho creduto che bastasse solamente salire su quel palco, con l'entusiasmo di un mese e mezzo passato accanto a Peter Gabriel, che poi era la persona che più di tutti sentiva il significato di quella manifestazione, con il sentirmi un po' parte di una famiglia e non del Festival dell'Eurovisione. Forse ho sbagliato pensando che qualsiasi spiegazione, tipo "signori, io ci vengo perché me l'hanno chiesto, perché mi fa piacere; preparo il mio set di 45 minuti con i miei musicisti, me lo pago addirittura perché non è questo il punto", sarebbe stata più sospetta e più ambigua del silenzio. Sono fiero di aver suonato per 45 minuti in condizioni tremende, senza prove, con notevoli opposizioni. In crisi mi ha buttato semmai il verificare ancora una volta come musica e beneficenza non vadano mai d'accordo: c'è sempre di mezzo lo showbusiness, il voler mettersi sempre e in ogni modo in buona luce. Inoltre ricordo un altro momento di intolleranza, quando vennero mostrate sui maxischermi le immagini di alcuni prigionieri torturati e proprio allora la gente s'è messa a fischiare. Il tutto è stato trattato con sufficiente imbecillità da buona parte dei giornalisti, con un gusto dell'acredine e del rancore incomprensibile, ma mi ha molto divertito leggere che, secondo alcuni, questo disco uscirebbe dall'esperienza di Amnesty. In realtà è nato prima, con quei musicisti che hanno suonato con me a Torino, con il rapporto stabilito con Peter Gabriel, eccetera. Comunque, non me ne pento, anzi. Lo rifarei anche da solo, cantando magari canzoni d'amore".
Dal pianoforte arrivano gli accordi introduttivi di Questo piccolo grande amore. Come da copione per Baglioni è il delirio. Il "fronte del palchetto" ha un ultimo fremito. Il presentatore epilettico gli si butta al collo farfugliando nel microfono: "Ci conosciamo da dieci anni e mi ricordo ancora quando tutt'e due portavamo i jeans a zampa d'elefante". Ma stasera quella che una giuria sanremese ha consacrato nel 1985 "canzone del secolo" suona per la prima volta come uno strano commiato dal passato, personale e artistico. Più tardi, nel camerino, il cantante conferma e il quadro è finalmente completo. "Ho vissuto due anni di perdite, di mancanze, come se il dolore e in un caso anche la morte si fossero avvicinati, non tanto a me, quanto alle persone che mi erano vicine. Inoltre un'abbondante crisi personale, una crisi familiare... qualcosa che a un certo punto non capisci bene perché si rompe e non puoi farci niente, come se non ci fosse più nessuna benda da mettere. Poi un'altra storia sentimentale importante, di quelle in cui riscopri un te stesso che non è tanto nuovo, ma era stato come rimandato a settembre. Infine il recupero di un'inquietudine che avevo perso, l'idea di viaggi solitari e di nuove sfide, basta col doppiopetto!, la scoperta di amare ancora il proprio mestiere, d'averci fatto pace, come artista e anche come uomo. Una sera di tristezza, di quella riportabile all'adolescenza, quando hai preso un brutto voto a scuola, mi sono scritto un pensierino su un foglio di carta, "tirati su perché la prossima sarà una generazione di poeti", capace di attraversare la propria vita e conoscere anche quella degli altri con il gusto di guardare le cose in trasparenza, di non restare solo sulla superficie, anche a costo di apparire a volte un po' melodrammatica, ma senza ansie, senza panico. Quel panico che ci fa dimenticare tutti gli altri mali del mondo. In una buffa canzone intitolata Dov'è Dov'è dico che questo secolo finisce dieci anni prima. Mi sembrava che la Storia stessa fosse stata fottuta dagli avvenimenti degli ultimi due anni e quindi addio Buona Novella del Duemila! Ma ecco che invece c'è una nuova, inquietante Buona Novella, che è poi questa società ficcanaso, impicciona, dove ognuno non ha il tempo di farsi gli affari suoi perché si deve fare quelli degli altri, in cui tutti vogliamo sapere tutto, le telecamere delle televisioni-verità sono sbattute nelle gengive dei bambini che piangono, questo senso dell'emozione a tutti i costi non lascia un secondo per stupirsi, per sognare o per fare una cosa normale. Insomma, perduto il concetto di contrapposizione al diverso che sta dall'altra parte, il futuro è arrivato con un dinamismo generalizzato, con questa grande amicizia planetaria, grandi abbracci, ma poi? Stiamo vivendo giorni senza futuro, dove la fase progettuale è stata cancellata.
"Pensiamo che la guerra sia quella del Golfo, ma la vera guerra è molto più vicina, ce l'abbiamo dentro come un disamore verso chi ci sta accanto. C'è la fretta dei rapporti, la sensazione che non vale più la pena di far niente perché niente serve. Il pacifismo viene ridotto a una burletta fuori della realtà. Si cita Bobbio quando fa comodo per fare gli intellettuali. Assistiamo a trasformismi spaventosi, con tutta una serie di Fregoli con le fregole. Non siamo più neppure comunisti, non si sa più che cosa siamo. È un disagio non capire. Certe volte uno dovrebbe stare zitto, perché solo il silenzio vale davanti a certe cose. Pensare ancora di chiamare divi gli attori, i calciatori, i cantanti, è ridicolo. Il divismo sta da un'altra parte, con la sua follia, con questo ghigno terribile. Possibile che solo pochi se ne accorgano? L'ultimo brano del disco, Pace, vuoi essere un invito non a una pace contrapposta a una guerra, ma a tirar via ogni possibile rancore verso se stessi, a dare un taglio alla voglia di autodistruggersi, a cercare di farsi del bene una volta tanto. Forse basterebbe questo a ridarci fiato e nuove energie per continuare".
Megawatt che stendono sulla pista della disco, Il cantante-miliardo è già risucchiato nella notte. Il presentatore, più epilettico che mai, passaparola al pubblico assiepato ancora fuori del camerino: "La vita è adesso, Baglioni è sempre". Per loro è sempre e ancora pace. Oltre.

Articolo segnalato da Antonio.