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del 01/10/86

Gioia
Così canto la vita
Nei motivi del cantautore romano domina l'amore di ogni giorno, fatto di piccoli gesti e di piccole cose: è questo il segreto del suo successo.

di Rita Dalla Chiesa

Roma, ottobre
Il suo primo cachet fu un'aranciata barattata per cantare, in piedi sulla sedia di un bar, La casetta in Canada. Aveva sette anni. Oggi, Claudio Baglioni riempie gli stadi. Cinquantamila persone per un concerto, una muraglia umana che in lui si identifica e che trasferisce nelle sue canzoni i propri sentimenti. Un mare di fiammelle accese nel buio che cominciano a oscillare alle prime note di Questo piccolo grande amore, proclamata l'anno scorso canzone del secolo. E alla sua voce si aggrappa la voce di migliaia di ragazzi e "non", si sciolgono le nostalgie, si rimpiangono gli amori adolescenti, si rivivono lì, in mezzo a tutti, sensazioni dimenticate dalla memoria cosciente.
Un fenomeno, quello di Claudio, che ha smesso di stupire, e che non ha nemmeno bisogno di essere analizzato. Semplicemente, lui canta l'amore di tutti i giorni, fatto di piccoli gesti, di piccole cose e di grandi storie. Le attese, uno squillo di telefono che non arriva mai, un letto disfatto con le cicche sul pavimento, un poster sulla metropolitana che ti invita ad andare in Tunisia, un pensiero che ti assale a tradimento mentre sei seduto su una sedia di cucina. Un amore che ci appartiene, in cui ci ritroviamo, e che si rincorre, ormai, da tre generazioni.

"Eppure", confessa Claudio "nonostante l'affetto del mio pubblico, ogni volta che salgo su un palco e mi trovo davanti a tanta gente, mi riassale la paura di non farcela, il terrore che non mi regga la voce. E allora tento di allentare la tensione scherzando con il mio gruppo, facendo una serie di scherzi o di smorfie che la gente non vede".
"E quando vai in giro da solo, come questa estate, con un pianoforte e basta?".
"Lì è ancora più dura. Perché se sbagli e sei con altre cinque persone non se ne accorge nessuno. Se sbagli e sei solo puoi giurarci che se ne accorgono tutti".
E racconta di quando una sera, allo stadio San Siro di Milano, è stato preso, prima di cominciare, da un vero e proprio attacco di panico. "Tremavo, mi era venuto un crampo alla mano, una tensione viscerale incredibile, pazzesco, poi ho pensato: "Ce la devo fare". Ho chiuso gli occhi, ho attaccato il primo pezzo, e ho cantato ininterrottamente per tre ore. Il giorno dopo mi hanno fatto vedere le foto scattate durante il concerto, e io non mi ricordavo più niente, avevo cancellato tutto, pur avendo avuto, mentre ero sul palco, un rapporto bellissimo con la gente".

Mentre parliamo, mi rendo conto che uno dei motivi del suo grande successo è la sua estrema semplicità. Dolce, simpatico, ma soprattutto con i piedi per terra. Non perde mai di vista, durante la nostra chiacchierata al ristorante, quello che per lui è uno dei suoi punti fermi: il rispetto che ha per chi crede in lui, lo va ad ascoltare, compra i suoi dischi.

"Io sono un artista popolare, non di élite. Devo mediare continuamente fra mille gusti, mille persone diverse per nascita, educazione, sesso, per credo politico o religioso".
Infatti riesce a interpretare come pochi il malessere di una società, sempre in bilico fra paura e speranza, in cui i giovani fanno fatica a identificarsi. I suoi testi sono spesso autentica poesia. E' poesia e rabbia la sua Uomini persi, dedicata "a tutti gli uomini e le donne che abbiamo visto morire in questi anni per le strade, uccisi dalla violenza, dalla droga, dal terrorismo, persone cui è stato sparato, bucandole come biglietti da annullare, e che da bambini hanno anche loro sperato che qualcosa di bello, invece, li aspettasse". Ed è poesia struggente e amara insieme la sua I vecchi. "I vecchi senza una carezza, i vecchi senza più figli, questi figli che non li chiamano mai. I vecchi con le ossa piene di rumori, e gli occhi annacquati dalla pioggia della vita. I vecchi che invecchiano piano, con una piccola busta della spesa. I vecchi che tornano in chiesa, lasciano fuori le bestemmie e fanno pace con Dio".

"Certe canzoni sono state difficili da scrivere", continua Claudio. "E sono difficili da cantare. Perché non sempre hai voglia di aprirti, di raccontarti completamente agli altri. Ogni volta che ci sono riuscito, però, ho anche capito di aver dato la canzone giusta al mio pubblico. Più di una volta mi è capitato di avere inciso dei pezzi standoci male io per primo".

In Notte di note, un libro molto suggestivo edito da Rusconi, Claudio ha descritto molto efficacemente alcuni momenti della sua vita in tournée. Immagini, volti, annotazioni si rincorrono nelle sue parole e nelle foto di Guido Harari. Una specie di testimonianza in prima persona di cosa significhi vivere fra treni, autostrade, aeroporti, pomeriggi densi di prove e di interviste. E infine le "notti di note" appunto, dove il mito "sarà lì davanti ai loro occhi, ma non saranno questi a percepirlo, bensì il cuore".
Domanda. Proprio nel libro Notti di note hai detto: "Più cresce il successo, più stretti si fanno i margini della libertà". E' così?
Risposta. Il successo è vincolante, una volta acquisito non vorresti più perderlo. Ma nello stesso tempo non vorresti perdere i tuoi spazi privati. Ci sono dei momenti in cui vorresti fare una passeggiata e non puoi. Vorresti portare tuo figlio ai giardini e non puoi. A me, per esempio, crea disagio, imbarazzo essere riconosciuto per strada. Soprattutto perché spesso la gente non si rende conto che il personaggio è tale solo quando canta o recita. Nella vita é uno come tutti gli altri, con il mal di testa, i problemi personali, una botta di malumore o una caduta di stanchezza. E' difficile, qualche volta, mostrarsi sorridenti, trovare la parola giusta, la battuta simpatica, firmare un autografo che non sia solo la tua firma scarabocchiata in fretta e furia. Io ho cercato di salvarmi delle briciole di vita solo mia proprio per evitare che chi mi vive vicino venga "inchiodato" al mio stesso bersaglio Vorrei, per esempio, che mio figlio Giovanni potesse crescere normalmente, in mezzo agli altri bambini come lui, senza sentirsi addosso l'etichetta di figlio di Baglioni.
D. E con tua moglie il fatto di essere sempre in pasto alla gente vi crea problemi all'interno della coppia?
R. Forse bisognerebbe chiederlo a lei. Ma immagino che non sia facile vivermi vicino. Anche se lei lo sta facendo ormai da quasi quindici anni. Paola è unica, per forza, pazienza e intelligenza nel far sì che il mio successo non tocchi la famiglia più di tanto. La nostra grande fortuna è che questo nostro viaggio insieme dura da moltissimo tempo, e insieme abbiamo diviso tappe, paure, momenti di esaltazione e qualche volta di crisi. Mi è stata vicina nel lavoro, in tournée, in sala d'incisione, mentre componevo, o soffrivo perché non riuscivo a tirare fuori quello che avevo dentro. Tutto questo ha cementato il rapporto e attutito i possibili colpi esterni. Perché alla fine siamo diventati veramente un tutt'uno. Io, per esempio, non so se saprei vivere, come fa lei, vicino a una persona famosa.
D. Non è gelosa di questo? Delle ammiratrici, o delle ragazzine che ti ritrovi in camerino, o nelle camere d'albergo?
R. Non credo, ha capito che il mio rapporto con le fan é fatto di simpatia, di ironia, ma anche distacco. Guai a prendersi troppo sul serio. Certo, se ti dicessi che tutto questo amore al femminile non mi tocca proprio, ti direi una bugia, perché anch'io, ogni tanto, faccio il mio bravo pieno di vanità. E allora bisogna stare attenti, e evitare lo scoppio dei pneumatici sgonfiando un po' le gomme.
D. Cos'è che ti fa stare peggio, in un rapporto d'amore?
R. Non la gelosia per la persona, quanto per quello che ho fatto con lei. Sono geloso del tempo trascorso insieme, dei segreti che abbiamo in comune, delle "stupidaggini" che però sappiamo solamente noi due Le famose piccole cose dell'amore, che non possono essere divise con nessun altro. Si sta insieme per quello, no?
D. Cosa significa, per te, essere romantico?
R. Vivere con molta intensità. E questo non significa muoversi in un mondo latte-e-miele, dove tutto è pastellato e i contorni sfumati nel rosa. Romanticismo é ricerca continua di sensazioni nuove da regalare e farsi regalare, non è una condizione di vita. E' la negazione di ogni forma di volgarità o stupidità gratuita. E' vivere con un minimo di poesia e fantasia.
D. E tu come vivi? Come inizi una tua giornata di non-lavoro?
R. Ho un risveglio lungo, un po' pigro. Quando sono a casa mia mi piace restare a letto a giocare un po' con mio figlio. Poi passo alla lettura dei giornali, alle telefonate di lavoro, e, se ho tempo ed è il mio turno, porto a spasso i nostri due cani. La sera preferisco restare in casa con pochi amici. Niente salotti mondani o relazioni politico-intellettuali. Un po' perché non mi cerca nessuno e molto per scelta.
D. Ti capita mai di litigare con qualcuno?
R. Anche se non sembra, sono uno che si arrabbia spessissimo. Però mi passa quasi subito, perché penso che alla base di un litigio non ci sia mai cattiveria o malafede, ma solo incomprensione. E comunque litigo quasi sempre per difendere le mie idee, il mio lavoro, e il rapporto che intendo instaurare con il pubblico che viene ai concerti. Addirittura. qualche volta, ho dovuto litigare con gli uomini del servizio d'ordine, per come intervenivano sui ragazzi. Avevo paura che da un momento all'altro potesse accadere qualcosa di spiacevole, proprio per quella mancanza di rispetto che purtroppo esiste nei confronti del pubblico musicale. E' uno dei pubblici meno rispettati; se poi lo confronti con quello "colto", quello che va nelle arene o nei grandi teatri lirici, diventa Cenerentola. Perché loro possono contare su sedie numerate, sovvenzioni dello Stato e spazi illimitati. Per il popolo dei canzonettieri, invece, tutto questo non esiste. Niente spazi, niente sovvenzioni, e il palazzo dello sport che, se per una partita di basket ha agibilità per diecimila persone, quando vi entra un cantante riduce l'agibilità a duemila.
D. Dalle tue canzoni vengono spesso fuori "fotografie" di una famiglia di origine molto unita, tradizionale. Un padre carabiniere, una madre tenera e presente. Che tipo di educazione hai ricevuto?
R. Quando ero ragazzo, e abitavamo alla periferia di Roma, pensavo che mio padre fosse rigido, severo, non solo con me ma anche con se stesso. Oggi sono convinto che mi abbia dato soprattutto un'educazione seria. E ha il grosso merito di avermi sempre aiutato, anche quando ho deciso di mettermi a scrivere canzoni. Lui e mia madre sono state le persone che all'inizio hanno più creduto in me, e mi hanno spronato ad andare avanti. Anche quando volevo arrendermi perché non mi piaceva quest'ambiente, fatto più di sottobosco che di luce. Nemmeno io credevo che ce l'avrei fatta a sfondare. In fondo, quando ho cominciato a strimpellare la chitarra, a quattordici anni, lo facevo soprattutto per far colpo sulle ragazzine.
D. E tu, con Giovanni, che tipo di papà sei?
R. Dipende dal momento, dalla giornata, non sono mai programmato uguale. Ci sono volte in cui farei quarantamila chilometri per dargli la buonanotte. E ci sono attimi di vero e proprio distacco dalla sua vita, dalla sua realtà. Quando è nato, quattro anni fa, non capivo bene che cosa fosse. Lo avvicinavo senza troppa convinzione. Poi, a un certo punto, mi sono accorto che era una persone esattamente come me, e non una semplice derivazione. Questo mi ha messo in difficoltà, comunque ho capito che non mi sarei mai dovuto comportare con lui nel1o stesso modo. E che avrei dovuto seguirlo e “interpretarlo” momento per momento.
D. Canti per i giovani e dalla parte dei giovani. A tuo figlio, che cosa vorresti insegnare, soprattutto?
R. Vorrei evitargli il più possibile le paure della vita. Quelle cose che ti "fregano", non ti fanno vivere bene, e ti fanno commettere delle ipocrisie nei confronti delle amicizie, degli amori e delle persone con cui lavori. E poi vorrei che potesse scegliersi una vita come lui vorrà, ma con la faccia pulita ben protesa in avanti.


Articolo segnalato da Enrico.