torna al menu
stampa
Rassegna stampa - domenica 7 aprile 1996 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

  <  elenco completo (595)   <  altri articoli scritti da Claudio Baglioni (47)
  <  articoli pubblicati su Epoca (3)   <  altri articoli scritti da Claudio Baglioni (46)

Pubblicato su Epoca - 07/04/1996

Il cantautore docente per un giorno all'Università di Milano.
"Ma smettiamola, per favore, di disprezzare le “canzonette”"
Le sue amarezze. Le sue gioie. I suoi sogni. Claudio si confessa dalla cattedra.



di Claudio Baglioni

Questo è il testo della lezione tenuta da Claudio Baglioni l'8 marzo allo Iulm (Istituto universitario di Lingue moderne) di Milano. E' stata la prime di una serie, sul rapporto tra musica e poesia, per il corso di Sociologia della cultura promosso del docente e semiologo Omar Calabrese.



Ci sono due momenti in cui un uomo si sente felice: quando diventa materia; e, quando, successivamente, si sente un elemento della materia stessa. Ho letto che Fellini diceva che la cosa più importante nella sua vita era essere diventato un aggettivo, gli piaceva sentir definire "felliniano" qualcosa che gli apparteneva o in cui si riconosceva. Io, mio malgrado, mi sono invece sentito definire come sostantivo: mi capita di leggere, di sentire parlare di "baglionismo". Per quanto vogliamo essere ironici o autoironici, il marchio che ci portiamo addosso, quello della "canzonetta", ci è imposto con una certa ferocia, in attesa di capire quali sono le vere canzoni. È un epiteto, un chiaro dispregiativo, lo si usa solo in una precisa circostanza, appunto nei confronti delle canzoni. Lo fanno tutti, anche Pippo Baudo, che su quel tipo di prodotto ci campa, ci fa sei giorni di festival: ma poi, appena si trova in difficoltà, si difende sostenendo che è inutile agitarsi troppo perché sono solo canzonette.
Anche i giornalisti, che dovrebbero avvilirsi a parlare di canzonette, e i critici, che potrebbero ambire a trattare di musica, sono poi tutti contenti di trovarsi in questa sagra del sorriso. In ogni caso il mio non è un mestiere serio, perché non è assoggettato ai tempi, ad alcuna regola, riuscendo noi autori a fare più o meno quello che si vuole. Sta di fatto che un simile lavoro, per quanto poco serio agli occhi di tutti, viene poi vissuto con aspetti di drammatizzazione collettiva: si va incontro a eccessi, non si dorme più, c'è chi pensa di essere al centro del mondo, che l'umanità non attenda altro che queste nostre opere. Ci si prende insomma molto sul serio. Altro aspetto: come è difficile accettare di essere vivisezionato in una forma d'espressione che non può o non dovrebbe essere smembrata, essendo parole e musica un tutt'uno. Nessuno degli autori di testi prescinde da quello che sarà poi il cantato, da come sono emessi un fonema, una sillaba. Io, per esempio, non ho mai avuto una particolare dimestichezza con le parole e sento un disagio grandissimo. Le parole purtroppo si capiscono, su quelle non si truffa nessuno. Sono sempre più convinto che le cose migliori, più belle, più seducenti sono quelle che non si comprendono del tutto, a partire dall'autore: altrimenti si finisce in un esercizio banale, una trappola in cui cadiamo in tanti, per spiegare, per cercare di fare quadrare tutto. Credo che il mio destino sia quello di staccarmi poco alla volta da una "forma-canzone" tradizionale, fatta di stereotipi, strofa, ritornello, per provare a costruire in modo diverso, trasversalmente, questo rituale. Il giorno migliore della mia vita sarà quello in cui riuscirò non a scrivere un testo, ma soltanto qualcosa che suoni. E' quel che ho cercato di fare, fin dall'inizio, quando magari passavo per il cantore dei buoni sentimenti, e si faceva una scrematura della parte più mercantile delle mie composizioni. Siamo alle prese con una lingua che non amo, perché la devo cantare e non è semplice. L'italiano è del tutto inadatto a essere cantato e basta guardarsi i libretti d'opera per convincersi di certe complicazioni: certo, i cantanti lirici si esprimono in maniera talmente strana da farci appassionare alle loro arie, ma è vero che molti testi sono raccapriccianti. La nostra è una lingua senza tronche, polisillabica: il sogno di molti di noi sarebbe cantare in altre lingue e non è un caso che certe volte funzioni meglio il dialetto, che viene dalla strada, è più asciutto e comunicativo. Senza sapere tutte le definizioni delle figure retoriche dall'allitterazione in poi, mi vanto di andarle a cercare, perché altrimenti mi sentirei privato dell'unico interesse che mi è rimasto nei confronti della parola: il gusto, il gioco, cioè, di cercare suono su suono.
La musica che fanno quelli come me è passata attraverso le definizioni più strampalate: c'è stato il periodo in cui era chiamata "extra-colta", quasi fossimo degli avanzi, una specie di sugna, prima ancora era yé-yé, poi popolare, quindi canzonette. In mancanza di meglio rivaluterei la categoria "leggera", puntando su un significato di leggerezza, di volo, di snellevolezza, di innocenza. Nel mio futuro c'è il desiderio di non avere più paura degli steccati, vedendo come il discrimine tra impegno e disimpegno, tra profondo e superficiale, tra sociale e non sociale, piano piano si è polverizzato, è sbiadito. Ognuno di noi scrive di avventura e disavventura dell'uomo, come i poeti che non sono nati per fare ridere. Ecco, vorrei che questa innocenza portasse un giorno a giudicarci non solo per i contenuti, ma anche per l'effetto. L'innocenza di chi si esprime, al di là dei giochi di parole, di una forma più o meno colta, sta nel riuscire a diventare un solista, esprimere una voce un po' fuori dal coro, senza esser snob o aristocratico.
Nello scrivere una canzone recente, Male di me, mi è tornato alla mente un episodio del 1970, quando avevo appena cominciato: mi capitò di conoscere lo scrittore Giuseppe Berto, l'autore de Il male oscuro, cui io mi avvicinai con riverenza, quasi con terrore. Gli spiegarono che ero un giovane cantautore in erba e lui disse di invidiarmi tantissimo, perché un giorno avrei avuto la possibilità di esprimermi come tanti altri artisti non riusciranno mai a fare, esibendosi, presentandosi di persona, per raccontare in ogni momento una storia. Cosa che per un romanziere, un autore di cinema o di teatro sarà mediata da tempi e materiali diversi: un meccanismo che avendo tra le mani una canzone, bisogna tenere sempre in considerazione.

Testo raccolto da Enzo Gentile

segnalato da Cristiana Borghi

  <  elenco completo (595)   <  altri articoli scritti da Claudio Baglioni (47)
  <  articoli pubblicati su Epoca (3)   <  altri articoli scritti da Claudio Baglioni (46)