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Rassegna stampa - domenica 8 ottobre 1995 ultimo aggiornamento: 18 dicembre 2001

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Pubblicato su L'Espresso - 08/10/1995
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Cantautori di ritorno/Il nuovo Baglioni-pensiero
Questa piccola grande angoscia.

Mentre esce, dopo cinque anni di silenzio, il suo nuovo disco “Io sono qui”, dice che non è mai stato di destra e spiega com'è mutata la sua visione del mondo. Perché parla di rabbia, depressione e morte lui che era poeta di piccoli grandi amori

di Roberto Cotroneo

L'ultima delle leggende su di lui è molto recente, e viene dall'Amazzonia. Mentre scendevano in barca il corso di un fiume tre turisti italiani hanno sentito canticchiare da un indigeno il motivo di “Questo piccolo grande amore”. Forse è vero, forse no, certo Claudio Baglioni, assieme a Mimmo Modugno ed Eros Ramazzotti è il cantante italiano più famoso nel mondo. Ma anche il più schivo: non dà mai interviste, si fa vedere poco, non è particolarmente loquace. Senza nascondersi al mondo come ha fatto Lucio Battisti.
E che lo si veda poco balza subito agli occhi. Chi lo ricorda come un ragazzone romano dal capello un po' lungo, e l'aria tenera e sentimentale avrà una sorpresa. Il Baglioni anno 1995 è un signore di 44 anni dai capelli folti ma un po' ingrigiti, dai modi discreti e quasi timidi. Ora dopo cinque anni di silenzio esce un suo nuovo disco: “Io sono qui". E alla Sony, la sua etichetta discografica, c'è una grande eccitazione. Perché questo disco di Baglioni non è un disco qualsiasi, anzi, è un disco di svolta, sofisticato, in molti passaggi persino difficile. Quasi niente a che vedere con tutto quanto ha inciso nel passato: ma senza tradire lo stile che tutti ben conoscono. E fa un po' effetto leggere parole come: "Solo nella mia pelle/ incontro a brividi avvoltoi/ a frugare le celle/ di lunghi bianchi corridoi/ o dove uscirne a caccia/ di questa mia inquietudine prima o poi". Oppure ancora, nella canzone "Titoli di coda": "Quando io morirò/ sarà un giorno qualunque/ come quelli che già sono andati/ o quelli che ci sarebbero stati".
Dunque un esperimento da scoprire? Nuovo, forse? Vengono in mente “le magliette fine”, i “passerotti non andare via” e gli “amori belli” mentre Baglioni serio e gentile si siede sul divano dello studio per ascoltare ancora una volta il suo nuovo disco, e ci dà la possibilità di ascoltarlo per primi. E a guardarlo concentrato, con gli occhi chiusi mentre la sua voce corre a tutto volume si capisce che è passato un secolo, non vent'anni, da quando quasi svenne in casa discografica alla notizia che era secondo in classifica. Un secolo da quando girava con la Camilla, una due cavalli per cui i fan impazzivano; un secolo da quegli anni, i primi Settanta, in cui lui, Baglioni, era il cantautore del disimpegno, mentre Guccini e De Gregori quelli di sinistra. Cosi tra "La locomotiva" e "Sabato pomeriggio" era compreso tutto il mare magnum della cultura giovanile. Ma se a quei tempi Baglioni non scriveva canzoni di protesta oggi le cose sono cambiate. La rabbia di questo disco si sente da subito. Cinque anni di silenzio, un tempo davvero inconsueto, gli hanno lasciato addosso molta voglia di raccontare il suo lavoro e persino un po' della sua vita.

Baglioni. Cominciamo da oggi. "Io sono qui" si annuncia come l'evento della musica leggera di quest'autunno. Per cinque anni lei non si è fatto vedere e sentire. Perché ha aspettato così tanto tempo?
"Ormai lavoro con tempi molto lunghi. Cerco di non essere mai ripetitivo, o banale. Lavoro molto attorno alle canzoni. E ho sempre bisogno di rivedere tutto quello che faccio, di pensarci su…"

"Io sono qui" è un disco sorprendente. Sembra un nuovo Baglioni? Perché?
"E' un disco d'urto, e un po' ambizioso. La prima cosa che ho cercato di fare è quella di non avere una geografia musicale troppo riconoscibile. Dunque non doveva essere un disco che andava incontro a un determinato tipo di pubblico".

Le ragazzine e i ragazzini un po' romantici?
"Appunto, il mio pubblico non è soltanto quello, ormai è più allargato. Guardi, io ho sempre avuto una grande passione per la musica. Mi piace sperimentare, mi piace il senso di libertà che mi dà cercare la strofa giusta, riprovare un arrangiamento fino a convincermi che è il migliore possibile. Non soffro di non pubblicare dischi per cinque anni: amo lavorare attorno al disco, sfruttando i tempi che posso permettermi".

Senta, Baglioni: non ha un po' paura di questo disco? Non crede che la sua maturazione musicale, qui molto evidente, possa in qualche modo nuocerle?
"No, di certo, no. Ma vede, l'equivoco su di me è sempre stato molto forte".

Cosa intende?
"Lei ricorderà "Questo piccolo grande amore"? Era il 1972. Bene: per alcuni, e spesso tra questi c'erano i critici, si trattava di una canzoncina per i cuori degli adolescenti. Invece era una canzone con una struttura musicale complessa, fatta di quattro parti messe assieme".

Sarà stato forse per i testi poco impegnati?
"Può darsi. Ma in quell'album io tentavo di raccontare altro. Non soltanto il primo amore e i sentimenti. Solo che quel successo trainò tutto il resto".

Vuole dire che fu un equivoco?
"Neanche per sogno. Voglio però spiegare una cosa, visto che ci siamo: la differenza tra me e gli altri cantautori, per così dire impegnati. Io arrivavo da una realtà diversa. Ero un ragazzo di periferia, la mia realtà quotidiana era periferica. Noi dovevamo conquistare il centro, arrivarci. Gli altri c'erano già, e volevano rompere tutto".

Vuole dire che i cantautori di sinistra, engagé, erano dei privilegiati?
"Senta, con i luoghi comuni io ho convissuto per una vita. Ma devo essere onesto. La mia realtà, allora, era davvero semplice. Le ragazze da accompagnare a casa in tram. I sentimenti dell'adolescenza che si prolungavano fino alla prima giovinezza. Non sarei mai stato capace di scrivere cose diverse. E per un po' di tempo ho vissuto tutto questo con un senso di colpa".

Perché? Sì sentiva fuori moda?
"Forse sì, ma oggi è diverso, oggi ho fatto pace con le mie canzoni. Mi ha fatto un po' soffrire non essere mai citato nei luoghi deputati della cultura musicale di quegli anni. Intendo la musica leggera, naturalmente".

Dunque lei era vittima dl un equivoco, e di una lobby negli anni Settanta e Ottanta?
"In un certo senso. In Italia c'è stata una visione delle cose superficiale. Non si guardava alla qualità del lavoro, soltanto se il messaggio trasmesso era quello giusto".

E lei come si sentiva a stare da un'altra parte?
"Cercavo di assomigliare il più possibile alle mie canzoni, quasi volessi annullare la differenza che c'era tra me e le cose che cantavo. E più cresceva la popolarità più mi sentivo come a disagio. Insomma le cose che raccontano tutte le persone famose. Come diventa difficile fare cose normali, prendere un tram, entrare in un negozio".

Facciamo un salto di 23 anni. Sentire "Io sono qui" è come stare in un altro mondo rispetto a quel mondo di amori e periferia di cui è stato importante cantore?
"Lei ricorda la mia faccia di allora. Com'ero in quegli anni? Beh, mi guardi adesso. Sono un uomo di 44 anni, con un figlio di 13 anni. Non vorrà credere che si è sempre uguali a se stessi. Anche se non penso di esser cambiato molto da allora sotto l'aspetto stilistico. Le mie canzoni si riconoscono. Quello che sorprende è che sotto l'imprinting Baglioni c'è una ricerca che mi ha dato grandi soddisfazioni. E che è prima di ogni cosa una mia ricerca musicale".

E' un disco a tinte forti, questo: qualche canzone fa pensare anche a un uomo angosciato.
"Ci sono due Baglioni in questo disco. Uno positivo, solare e affermativo. E un altro pieno di domande, di dubbi; un uomo che spesso è senza risposte".

Si riferisce ai testi?
"Si riferiscono, specie i critici, sempre ai testi. Nessuno che faccia un discorso complessivo, che metta assieme testi e musica, in modo che i primi si spieghino coi secondi e viceversa. Così il cantante Baglioni diventa il “Baglioni-pensiero”".

Beh, non è contento? Dopotutto è il prezzo di un successo che dura da sempre.
"Con il mio successo ho fatto e faccio i conti da molti anni. Mi chiedo spesso se me lo sono meritato. E ogni disco riapre il caso. Questa volta la domanda è più forte, e più inquieta".

Cosa vorrebbe che sì dicesse di questo suo disco?
"Che è un disco che dà delle emozioni, delle emozioni forti, un disco che colpisce anche fisicamente".

Citazioni da "Blade Runner", intermezzi che utilizzano li linguaggio delle sceneggiatura cinematografiche, schermi televisivi che restituiscono il vuoto. E poi amore - come sempre- ma anche parole che ricorrono come eutanasia, morte, fine. Tutto tenuto assieme da musiche rarefatte, arrangiamenti orchestrali sofisticati. Non mi dica che le basta solo dare emozioni. Forse vuole comunicare una svolta vera e propria?
"Ho vissuto gli ultimi cinque anni di questo paese con molta desolazione, con poca fiducia. Forse tutto questo si legge dal mio disco".

Cinque anni di poca fiducia, lei dice. In questi cinque anni è accaduto di tutto. Si è passati dalla Prima alla Seconda Repubblica, è cambiata la politica, la società italiana. E lei, in silenzio. In un mondo di esternatori di ogni genere, dove tutti esprimevano opinioni lei è rimasto chiuso nel suo mondo. Cosa ha fatto, oltre il disco?
"La tentazione di parlare, di esprimere le proprie opinioni è sempre forte. Ma ho anche un senso del decoro".

Ah no, torniamo ancora al Baglioni low profile: magliette fini e amori non corrisposti. Non vorrà far credere una cosa del genere?
"No, no, non ci riprovo affatto. Dico solo che amo il silenzio. In Italia si esprimono pareri su ogni cosa. Non credo che sia necessario aggiungere la mia voce nel coro Essendo un musicista mi piacciono anche le pause, che sono importantissime".

E in questi silenzi, in queste pause come lei le chiama, come è passato il suo tempo?
"Alla finestra a guardare il mondo. Ho tenuto molto accesa la televisione. Verso cui ho un rapporto contraddittorio: ne ho bisogno e al tempo stesso mi turba, soprattutto la qualità di certe cose che vengono trasmesse".

E' un video-dipendente?
"In un certo senso. E' il mio modo di vedere la realtà, di riconoscerla. Mi rimbambisco di televisione a volte. Quasi a non poterne più. Influenza i linguaggi, i modi di dire. Ho bisogno di vedere la televisione marginale, quella brutta, quella delle reti minori. Mi attira, quasi con orrore, la sua volgarità, la sua bruttezza. Mi lascio trascinare da questa lavatrice dove c'è dentro tutto. Tutto il mondo che mi sta intorno, che spesso non mi piace".

In questo suo ultimo disco si sente la sua idiosincrasia verso il mondo. Sembra sempre che lei stia da un'altra parte. Quando si cantavano canzoni politiche lei scriveva testi d'amore. Negli anni Ottanta, affluenti e ottimisti, decide di cambiare genero, e scrive canzoni tristi e problematiche. E oggi vuole ancora prendere in contropiede il suo pubblico. Perché?
"Quando negli armi Settanta mi facevano domande sull'impegno o il disimpegno, io dicevo che non sempre il proprio impegno deve finire nelle canzoni. Ci sono luoghi più adatti per gli slogan politici. Le mie sono canzoni, e basta: poi ognuno ne ricavi ciò che vuole. Non ho mai pensato di indottrinare nessuno. Né allora, né oggi".

A proposito di dottrine politiche. E' vero che lei era un cantante di centro? Con Battisti a destra, e tutti gli altri a sinistra?
"Altro equivoco. Persino curioso. Non sono mai stato né di destra e neppure di centro. Mi sono sempre orientato verso i partiti della sinistra storica. E negli ultimi anni verso gli ambientalisti".

Ma non l'ha mai detto?
"Ma secondo lei è dignitoso andare a dire, come dei maestrini: "No, no: mettetemi tra quelli buoni, e non dietro la lavagna". Erano fatti miei. Facevo il cantante, mica il candidato alle elezioni politiche. Se volevamo parlare di musica, ero pronto. Tutto il resto mi sembrava assai avvilente".

Pero è vero che lei ha sempre parlato poco. E su tutto. Forse se si fosse raccontato un po' di più...
"Sarebbe stato meglio, ma io sono così, un po' chiuso. Un tempo riuscivo a star per un mese, un mese e mezzo, senza vedere nessuno, e nulla mi avrebbe toccato. Oggi comincio ad avere dei problemi. Anche perché più sto solo più penso in modo ossessivo al mio lavoro, ai miei dischi, alle mie canzoni".

Questo suo ultimo disco le sembra ossessivo?
"Dal punto di vista dell'ascolto no. Forse è stata ossessiva la ricerca della qualità musicale. E più lavoro più comincio a pensare al tempo portato via che non potrò più recuperare. Ai bicchieri di vino che non ho bevuto con gli amici perché concentrato a lavorare".

Beh, è un'immagine un po' malinconica, quasi un'angoscia...
"No, non è una forma di angoscia. Anche se ho, lo sento, una forma di familiarità con la depressione. Ma quelli sono i miei momenti migliori: scrivo dei bei testi in quei momenti".

Dunque i suoi testi sono figli della solitudine. Non può negare che “Fuggirò, ma dove andrò se il mio morale è così brutto che già si sta impiccando ad un bonsai” faccia una certa impressione...
"Sì ma non dimentichi che i miei testi sono anche figli della folla. Giro con fogliettini di carta su cui prendo appunti. Ovunque mi segno le frasi che sento casualmente e mi colpiscono di più".

Ma vogliamo dire, semplificando un po', che il futuro è in un Baglioni impegnato, che guarda alla realtà, anche a quella deformata. Che parla di vuoto, che si lamenta dei mondo. E magari, anche senza cambiarlo fa intravedere che gli piacerebbe vivere in una realtà diversa?
"Delle volte mi piacerebbe ridurre i miei angoli di osservazione, diminuire il respiro delle cose che mi stanno attorno. Vorrei evitare di scoprire ogni volta che tutte le cose del mondo si assomigliano, che tutte le informazioni alla fine diventano indistinguibili tra loro. Delle volte vorrei cancellare il villaggio globale, questo maledetto linguaggio globale, dove nessuno può fare altro che essere informato dalla mattina alla sera. E noi tutti stiamo lì, come degli imbecilli, a partecipare a questa lotteria, a questa tombola generale, dove tutto perde di significato".

Baglioni, adesso vuole anche mettere fine al villaggio globale?
"Parlo per paradossi, è ovvio. Vorrei soltanto consolarmi e pensare che si può ricostruire un microcosmo dove ricominciare a pensare alle persone che ti sono vicine".

A proposito di persone vicine. Un'ultima domanda. Se dovesse spiegare a suo figlio tredicenne questo suo disco, fargli capire di cosa si tratta, quali parole userebbe?
"La sa una cosa? Spero di non doverglielo spiegare mai. Spero che i miei dischi possano essere compresi senza dover aggiungere nulla a quella musica e a quelle parole. Anche se questa volta può sembrare più difficile".

segnalato da Enrico

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